Il Padule di Scarlino

Ultima modifica 15 luglio 2020

Come riportato in alcuni scritti di Plinio, la Maremma, dopo che la civiltà etrusca era stata assorbita dall’Impero Romano, ha subito un lungo periodo di abbandono, che è proseguito nel Medioevo fino all’epoca di Cosimo I e i suoi successori durante il Granducato Mediceo quando sono iniziati alcuni interventi di recupero. Nonostante ciò, lo Stagno del Puntone ha rappresentato un ruolo importante nell’economia scarlinese, soprattutto nel Medioevo. Come altri stagni costieri presenti in questa parte di Maremma, fra Piombino e Castiglione della Pescaia, anche questo era costituito da una laguna comunicante con il mare, costituita principalmente da acqua salata, non malsana. Solo dopo il XIII secolo, a causa dello spopolamento della zona, si è avuto un peggioramento delle condizioni ambientali, anche in conseguenza dell’apparizione della malaria. Prima di questo periodo, come riportato nei documenti (era il 1230), i signori di Scarlino avevano il diritto di ricevere per ogni notte di pesca nello Stagno, il miglior pesce catturato. Insieme alla pesca e alla caccia si era sviluppata anche una certa attività di artigianato legata all’impiego delle piante lacustri (scarza, paglietta, cannucce e altro ancora). Nella zona di Portiglioni c’era un buon attracco per le navi, sia per il trasporto di grano e sale che per imbarcazioni più grandi, delle dimensioni di una galea. Il porto rivestiva un’importanza strategica, grazie alla sua posizione nel centro delle attività commerciali fra Pisa, Piombino, l’Isola d’Elba e Castiglione della Pescaia. Il trasporto del sale era molto importante per l’attività commerciale del luogo sebbene nel Comune di Scarlino non vi fossero saline, presenti invece nel territorio di Piombino e Castiglione della Pescaia. Lo Stagno, detto oggi padule di Scarlino, occupava una superficie di circa 2 miglia in lunghezza e di circa 2/3 di miglia in larghezza, pari a circa 650 ettari. Secondo gli storici del tempo del Granduca Leopoldo di Lorena, lo Stagno non esisteva ai tempi dell’Impero Romano, o quanto meno non come si presentava allora, dato che Rutilio Numiziano non lo citava nel suo “Itinerario Marittimo”, tesi che trova una conferma anche nelle verifiche tecniche degli ingegneri che operarono sotto il Granducato. Ma gli interventi di recupero più concreti risalgono a Pietro Leopoldo, con l’affidamento a Leopoldo Ximenes dello studio per la bonifica idraulica. Secondo Ximenes era necessario procedere all’eliminazione delle acque stagnanti nelle paludi attraverso la costruzione di canali comunicanti con il mare e di pari passo procedere con le colmate. L’obiettivo principale del Granduca era quello di eliminare il problema della malaria e al tempo stesso rendere coltivabili nuove terre e creare nuovi insediamenti. Era il periodo in cui i cittadini di Grosseto si trasferivano all’interno lungo la valle dell’Ombrone, a monte di Paganico, durante il periodo estivo per starvi fino ad autunno inoltrato. Si pensava che la malaria fosse in stretto rapporto con la presenza delle paludi. Nel 1880 il medico Charles Louis Alphonse Laveran osservò i microrganismi nel sangue di ammalati di malaria, ma si deve aspettare fino al 1898 quando Giovanni Battista Grassi, Giuseppe Bastianelli e Amico Bignami scoprirono che la malattia veniva trasmessa attraverso la zanzara anofele. Alcuni anni più tardi furono messe in atto misure di profilassi per interrompere il ciclo riproduttivo delle zanzare, con la distruzione delle larve presenti nelle acque stagnanti. Ciò ha condizionato in maniera pesante i sistemi di bonifica del periodo. Infatti era opinione di molti tecnici che serviva eseguire opere che evitassero la miscelazione delle acque dolci con quelle salate, mentre altri erano convinti della necessità della colmata e della realizzazione di una rete di canali scolanti. Ovviamente tali opere avevano necessità di tempi lunghi e di costi elevati per le casse del Granducato, tanto che i lavori furono aspramente criticati. Diverse fonti attestano che dalla metà del 700 all’inizio dell’800 il padule “si era notevolmente accresciuto” e il territorio circostante era “quasi del tutto abbandonato dall’agricoltura” per la presenza della malaria. A causa di ciò Felice Baiocchi, reggente del Principato di Lucca e Piombino, il 12 maggio 1808 emanò un decreto con cui venne deciso il disseccamento di tutte le aree palustri del Principato, ma il progetto non andò oltre la fase ricognitoria. Dopo l’annessione dei terreni del Principato al Granducato, la progettazione continuò sotto il Granduca Ferdinando III, anche grazie alle pressanti richieste degli scarlinesi di prosciugare il padule, la cui aria era divenuta insalubre e invasa dalla malaria, sebbene i grandi proprietari terrieri della zona umida non vedevano di buon occhio la totale bonifica. Infatti negli anni venti il prezzo dei terreni e i ricavi dalle colture cerealicole erano assai bassi al contrario dell’acquitrino. L’ingegnere incaricato da Ferdinando III, nel 1824 presentò il disegno di bonifica del padule con colmata, progetto che venne avviato sotto il Granducato di Leopoldo II di Lorena. Il Granduca intendeva bonificare i paduli della costa da Livorno fino a Orbetello con la costruzione di cateratte, consigliate dagli studiosi del tempo. Il sistema di cateratte serviva ad evitare la miscelazione fra acque salse e dolci, ritenuta allora la causa principale della “malsana dell’aria”.
Il padule allora si estendeva per una superficie di 875 ettari. La bonifica fece deviare il Pecora dal suo percorso originale per lo sfocio a mare e fu arginata la parte di Follonica. Venne realizzato un nuovo canale, l’Allacciante, per raccogliere le acque provenienti da Gavorrano e Scarlino. Nella parte a mare, nei pressi del Puntone fu deciso di chiudere la foce, sebbene fosse molto larga e di difficile esecuzione. A differenza del prosciugamento delle aree palustri della Maremma, finalizzate al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e allo sviluppo dell’economia agricola, la bonifica del padule di Scarlino mirava essenzialmente a rendere abitabile Follonica in quanto centro siderurgico dello Stato Lorenese, fra i principali d’Italia. I cantieri continuarono incessantemente dal 1830 al 1840 con operai aquilani, ma anche pistoiesi, genovesi e chianini, con una forza lavoro che variava, a seconda dei periodi, da poche decine fino ad oltre 300 unità. I lavori procedettero comunque fra molte difficoltà, a causa del crollo delle arginature per le continue inondazioni e anche per il calpestio del bestiame allo stato brado. L’intervento principale fu quello di chiudere la bocca a mare del padule, nelle vicinanze del Puntone, con la costruzione di  “una palizzata ripiena di scorie di ferro” e di “una graticciata di fascine” e piote ben battute poste “a traverso del canale”. I lavori vennero terminati nel 1836 insieme al ponte cateratte. Il sistema di prosciugamento dei terreni per colmata non portò ai risultati sperati: in un decennio di lavori era stata sanata circa la sessantesima parte della palude, tanto che Leopoldo II, che ritenne la colmata il metodo più efficace ma non applicabile a tutte le situazioni del padule, prese in considerazione il progetto del prosciugamento meccanico attraverso un sistema di idrovore per pompare fuori l’acqua.
In realtà le macchine vennero montate e fatte funzionare ma i risultati non furono quelli sperati. Nel 1845 Leopoldo II incaricò una commissione tecnica di risolvere il problema del padule. La commissione, per rimediare a quella che era ritenuta la principale causa della “mal aria” , consigliava di “piantare una fitta pineta sul Tombolo interposto tra il padule e il mare, e quindi numerose file, ma fra loro distanti, di pioppi e gattici sul fondo dell’antico padule già scolato, non altrimenti che su quello colmato, le quali fossero perfettamente dirette da nord a sud”. Inoltre, pur concordando con la bonifica per colmata, conducendo il Pecora in mare attraverso l’Allacciante, sconsigliavano il prosciugamento con le pompe meccaniche, sistema ritenuto non idoneo per motivi igienici, credendo che eliminando l’acqua dal fondo avrebbe determinato una recrudescenza della “mal aria” a causa degli organismi animali e vegetali depositati. Il progetto era quello di sommergere con acqua marina lo Stagno e la parte del padule il cui fondo era inferiore a quello marino, con la realizzazione di un argine che doveva dividerlo dalla parte acquitrinosa. In tal modo si sarebbe realizzato anche un ricovero di circa 70 ettari per le navi di cabotaggio per soddisfare gli interessi commerciali dello stabilimento di Follonica. Del progetto fu eseguita solo la colmata e, tra il 1846 ed 1848, furono realizzati i lavori per inviare il Pecora e l’Allacciante in mare con l’aggiunta di due luci al ponte-cateratte e per il prolungamento dell’argine del Pelagone per delimitare il padule. Nel 1848 furono inoltre piantate le alberete e le pinete nel tombolo fra il Puntone e Follonica. Nel periodo tra il 1848 e il 1855 i lavori subirono un rallentamento a causa delle vicende politiche che interessarono lo Stato lorenese. Le condizioni del padule subirono un notevole peggioramento tale da richiedere un’intensificazione dei lavori di colmata: dal 1859 vennero trasportate enormi quantità di terra per riempire lo Stagno nella parte più profonda per evitare l’ingresso dell’acqua marina. Nel 1870, si affermava che erano stati bonificati 630 ettari: 135 colmati e 496 prosciugati, rimanendo da colmare ancora 270 ettari. I lavori subirono un’intensificazione per circa un trentennio, anche con un notevole impegno finanziario, per subire poi un successivo abbandono fino al 1929, anno in cui vennero ripresi fino a conclusione della bonifica, in cui furono impiegate anche le idrovore, determinanti per il successo dell’opera. La bonifica si intende terminata nel dopoguerra, dopo un lunghissimo periodo di lavori. 


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